Missioni Consolata - Marzo 2007

padre esistono solo nella relazione. Il padre «aveva due fi. gli», ma resta «un tale», senza nome: un innominato per– ché i due figli non hanno un padre. Possiamo intuire che quest'uomo è «già» morto prima ancora che inizi la storia: immediatamente infatti siamo immessi in una storia di morte e di morti. I figli sono mor– ti al padre e il padre è morto per i figli. Il padre è «croci– fisso»con i due figli che lo sorvegliano, ciascuno da un lato, ma ambedue assetati della morte del padre. Il minore lo uccide anzitempo per appropriarsi dell'e– redità prima della morte del padre: «Dammi la parte del patrimonio che mi spetta» (v. 12). È come se dicesse: «Tu per me sei morto». ll maggiore non è da meno, perché mette il padre sot– to processo e lo giudica con una severità veemente, con– dannandolo inesorabilmente senza appello: «Egli s'indi– gnò... tu non mi hai dato... questo tuo figlio» (vv. 28. 30). Si potrebbe intitolare questa prima parte della parabo– la come «la parabola della morte preventiva». Quale tra– gedia per questo «uomo», che in un attimo apre gli occhi e si sveglia da un sogno per prendere coscienza di avere fallito t utto nella sua vita che ha dedicato ai suoi due fi. gli, i quali ora gli negano la sua stessa «natura»: i figli han– no il potere di trasformare il «padre• in «un tale». Nota. In Oriente, al tempo di Gesù (il costume esiste ancora oggi pres– so i palestinesi) quando nasce un figlio, sia il padre che la madre perdo• no il nome proprio per acquistare quello della paternità/maternità. Fac– ciamo l'esempio di Gesù. li padre legale, Giuseppe, e la madre, Maria. mantengono i loro nomi fino alla nascita del figlio e per tutti sono Giu– seppe e Maria. Dal momento della nascita del figlio maschio (che eredi– ta non solo i beni, ma anche il nome e quindi il casato), Giuseppe di– ventaper tutti cii padre diGesù• ( 'ab Jehoshutr, in arabo: abù lssàh) e Ma– ria perde il suo nome proprio e diventa per tutta la vita «la madre dj Ge– sù• ('em]ehoshu!J;in arabo: ummùn /ss!Jlr. Cv 2,1.3; 19,25; Al 1.14). li fi– glio determina la natura e la funzione del padre e della madre. Vale anche il contrario: di norma i figli non vengono chiamati con il no– me personale, ma con il nome che indica la relazione generativa. per cui Gesù non è il «figlio di Giuseppe> (Le 3,23: 4,22; Gv 1.45; 6,42) oppure «il figlio di Maria• (Mc 6,3). Lanonimato estremo della parabola mette in risalto in modo drammatico la tragedia d i questo padre: «aveva»so– lo due figli, che erano tutta la sua vita e la sua ricchezza; ha vissuto per loro credendo di essere una vita donata. Un istante e tutto crolla; senza identità, senza funzione, se1:12a più figli: una paternità strozzata, vilipesa e uccisa. E il sentimento comune a tanti padri e madri che da– vanti all'autonomia dei figli, che prendono strade diver– se da quelle che essi vorrebbero, si abbandonano allo sconforto e pensano di avere fallito t utto nella loro vita o di non essere stati capaci di trasmettere ai figli quel ba– gaglio necessario ad affrontare il viaggio dell'esistenza, mentre i figli pretendono il diritto di sbagliare da soli, at– traverso le loro esperienze. A questi padri e madri, piombati nell'anonimato della sterilità non resta che assumere questo stato innaturale e trasformarlo in un punto di forza, come fa il padre delJa parabola lucana: è un padre negato che non nega né rin– nega i suoi figli. I figli lo uccidono lasciandolo ancora re– spirare, ma egli non rinuncia alla sua paternità generati– va e continua ad amarli perché a un padre e a una madre nessuno può impedire di amare e continuare a generare i figli, anche contro la loro volontà, anche se non ne so- no coscienti. Un figlio può rinnegare il padre; il padre ' non può rinnegare mai il figlio: padre e madre «sono con– dannati,, a partorire i figli sempre. In questo contesto si capisce e si spiega l'espressione che tante volte abbiamo richiamato: «Dio è giusto perché salva, perché perdona•. V. 12....,: 12 b Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. 12c11padre divise tra loro le sostanze Il vocativo «padre» farebbe supporre un grado d'inti– mità confidenziale, invece mette ancor più in evidenza lo stridore tra questa parola pregna di affetto e la richiesta del figlio, che si rivolge al padre con un imperativo. Le usa l'imperativo aoristo (dòs - dammi), che in greco esprime un comando che deve essere eseguito una sola volta, per cui potremmo tradurre: «dammi una volta per tutte/ una buona volta» oppure «dammi definitivamente». Usando il verbo in questo tempo il figlio vuole chiude– re la partita col padre una volta per sempre, segno che la sua richiesta è frutto di una lunga gestazione e macchi– nazione. Forse da molto tempo fa le prove, ma non ha mai trovato il coraggio di affrontare iJ padre, mentre ora en– tra nella logica delJa rottura definitiva e quindi delJa la– cerazione: «Padre, dammi...»nel senso di «facciamo i con– ti». Lo circuisce con una finta affettività (padre) per asse- Ultima cena: pane spezzato, vita donata. stargli il colpo di grazia senza scampo (dammi). Già nella quarta parola di libertà delJa Toràh (coman– damento), Dio aveva scritto sulla pietra che una condi– zione per accedere all'alleanza era l'onore dei genitori: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti da il Signore, t uo Dio» (Es 20,12; cf Dt 5,16). La sanzione per chi non osserva que– sto obbligo è la morte: «Chiunque maltratta suo padre o sua madre dovrà essere messo a morte; ha maltrattato suo padre o sua madre: il suo sangue ricadrà su di lui• (Lv 20,9; cf Es 21,17). li libro dei Proverb i caratterizza la fi– sionomia del figlio saggio e intelJigente e quelJa del figlio stolto e disonorato: il primo onora il padre (Pr 15,20; 28,7; 10,1) il secondo lo rattrista (Pr 19,13.26; 17,25). ll figlio più giovane con una sola parola (dammi) abo– lisce la Legge, la Sapienza e qualsiasi principio che si ba– si sul dovere: abolisce semplicemente l'intera Toràh di Mosè. Egli è impaziente e in quanto giovanissimo non ha tempo per aspettare il suo tempo: accecato da se stesso, vuole il buio attorno a sé e tutto deve piombare nel si– lenzio delJa morte: «Dammi!». La figura del figlio p iù gio– vane risalta ancora di più, se messa a confronto con due simboli eccelJenti di tutta la tradizione b iblica giudaico MC MARZO 2007 ■ "

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