Missioni Consolata - Aprile 2006

di, come racconta lo stesso Massaia: «Sono partito da Massaua alla volta di Gondar non senza forti ostacoli da parte di tutti gli amici, i quali fecero ogni sforzo per trattenermi, presentandomi i pericoli della persecuzione non ancora finita. Monsignor De Jacobis credeva sicura la morte mia; e volendo far da profeta, disse che sarei andato al martirio». Ma il Massaia aveva fatto i suoi calcoli: il «martirio», scriveva, è «cosa per altro impossibile, stante certe circostanze, ch'io solo coram Deo posso conoscere». Per evitare rischi alla missione di De Jacobis, prese tutte le precauzioni necessarie, partendo senza salutare nessuno e viaggiando sotto false spoglie. «Tagliatami la barba e deposto ogni distintivo di persona ecclesiastica, partii a piedi, colla sola compagnia di due servi fidi e di un prete indigeno, a cui potessi confessarmi in ogni occorrenza». Il rischio del viaggio era motivato dal fatto che il Massaia era stato esiliato da quei territori dal principe Ubié 18 mesi prima. D'altra parte sarebbe stato impossibile attraversare il suo territorio, che richiedeva 20 giorni di cammino, senza essere notato. Era indispensabile il suo permesso. Da qui la decisione di affrontare direttamente e di petto l'ostacolo. «Però io m'appigliai a un partito al tutto straordinario e fu presentarmi improwiso al re stesso in qualità di semplice viaggiatore e chiedergli la sua assistenza nel viaggio». L'accoglienza fu fredda, come racconta il missionario: «Penetrai dunque in abito di meschino europeo, accompagnato dai miei servitori, nel territorio di Ubié; e vi fui accolto come usano colle persone ordinarie... Il cuore mi batteva più che mai, non per paura dei mali che potessi incontrare io, ma di tutti quelli che potevano cogliere alla nostra santa causa, di cui io ero come in signum contradictioniS>>. Per avere un appuntamento con Ubié prese contatto con un suo parente. Fu sottoposto a mille domande; preso dallo scrupolo di non mentire, «cercai di tacere una parte del vero che più mi premeva». Per mettere «fine alla catena di tante interrogazioni molto pericolose per me» si appellò direttamente all'autorità superiore. «Se in me era qualche cosa di misterioso, l'avrei a voce o per iscritto svelato al solo Ubié». Il travestimento da mercante si rivelò inefficace. Ma sapeva che Ubié non era contrario alla sua presenza e alla sua missione; ma a corte c'erano «molti nostri giurati nemici - continua nella sua lettera - Ubié disse all'uomo che più frequentavami e che gli aveva recata la mia ultima risposta: "Bada di non fiatare ... Il meschino viaggiatore, che chiede udienza, è il celebre abuna Massaia, ch'io credeva già ritornato a Roma... Prima che vengano alla corte i grandi impiegati (era di mattino, poco dopo la levata del sole; ed io era giunto al campo la sera prima), corri a chiamarlo all'udienza"». Il ritorno del messaggero, che non era riuscito a scoprire la vera identità del forestiero, lo rinfrancò alquanto, senza eliminare totalmente la tensione: «Dopo che ebbi preso da un servo il picciol regalo destinato al principe, c'incamminammo alla tenda reale; benché sapessi ogni cosa avere, per misericordia di Dio, cambiato aspetto, pure le mie gambe non volevano reggermi». L'udienza fu cordiale e positiva. «Preso pertanto commiato, e tornato a casa, gli feci spiegare la mia assoluta volontà di partire; e dopo molte ambasciate, in una delle quali Ubié mi fece dire che aveva dato ordine per un'altra casa e un altro genere di trattamento per me, mi lasciò finalmente in libertà, pregandomi di compartire a lui e al suo regno la mia benedizione e assicurandomi che avrebbe prese tutte le precauzioni per fare sì che il mio viaggio fosse felice. Colla benedizione gli mandai i miei dovuti ringraziamenti». «Mi fu data per scorta del viaggio una persona della casa di Ubié, a cui vennero fatte le più vive e gelose raccomandazioni e dati ordini più pressanti. L'amico volle accompagnarmi un'ora di strada; nel qual tempo mi disse molte cose intese da Ubié a riguardo mio e di monsignor DeJacobis, a cui portava un affezione incredibile». In questa situazione difficile il Massaia annota: «Oh quanto differente dalla mia entrata nel campo del principe fu la uscita! Era il 20 giugno, giorno dedicato alla Vergine santissima della Consolata di Torino e giorno in cui ella volle porgermi l'ineffabile contentezza di fare il tanto sospirato viaggio alla mia missione e raggiungere i miei amati compagni». La fede in Dio e la protezione della Vergine Consolata diedero al Massaia coraggio di sfidare l'impossibile. Econclude: «Ecco, caro amico, come terminò il mio esilio dall'Abissinia. Avrebbe durato ancora chi sa quanto, se non avessi preso ardimento di fare il passo, che feci oltre ogni previdenza. L'opera di Dio, eminentemente sublime, cammina per vie a prima vista impraticabili, ma piane, perché opera di Dio, il quale suole, nel tempo stesso, agir forte e disporre soavemente delle cose di quaggiù». LA GRANDE EPOPEA Dal Tigray passò nello Scioa, al di là del quale si estendeva il paese degli oromo. Ma un manipolo di sgherri lo catturò e, tra umiliazioni di ogni genere, lo portò davanti al ras Aly, che costrinse il missionario a recarsi in Francia per chiedere la protezione dei francesi per il suo regno contro la minaccia di aggressione da parte dell'Egitto. Il 3 giugno 1850 il Massaia salpò da Aden per l'Europa. Compiuta la Missionari della Consolata in carovana verso Gimma, vicariato del Kaffa. --------------------------------------------------------------------- MC APRILE 2006 • 43

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