MISSIONI CONSOLATA 5 iamo atterrati a Gibuti il15 settembre 2004:tre missionari e quattro suore della Consolata. Dopo un'accoglienza calorosa, il vescovo mons.Giorgio Bertin ci ha accompagnato alla nostra sistemazione: i missionari nella casa una volta appartenuta ai fratelli delle Scuole Cristiane con annessa scuola «La Salle»; le suore nell'abitazione che fu dei cappuccini, nel quartiere Boulaos. Per meglio acclimatarci e guardarci attorno, il vescovo ci affidò al suo vicario episcopale, che per alcuni giorni ci fece conoscere la città e ci introdusse nella nuova realtà della nostra missione tra i musulmani.A 15 giorni dal nostro arrivo éravamo già allavoro:fratel Maurizio Emanueli destinato a diventare direttore della scuola La Salle; padre Mathieu Kasinzi incaricato di seguire la comunità etiopica, oltre a intraprendere lo studio dell'arabo, per approfondire la conoscenza dell'islam e pre- ' pararsi a un compito futuro più specifico di dialogo con i musulmani; il sottoscritto è stato incaricato di dirigere la Caritas diocesana. Alle suore il vescovo chiese la disponibilità nel campo sociale e sanitario. Due di esse, Dorota e Redenta, furono subito assunte dal ministero della Sanità come infermiere in un ospedale della cooperazione italiana, nella periferia della città.Suor Anna iniziò la sua collaborazione nella Caritas e suor Celia fu destinata a prestare il suo servizio in una struttura statale per ragazze orfane. A dire il vero, il primo impatto non è stato facile. A parte il vescovo e i pochi sacerdoti che operano in questo paese, a Gibuti non abbiamo trovato una comunità cristiana ad attenderci.Anche se la presenza dei francesi è rilevante, si tratta di persone di passaggio, che rimangono un anno o due e poi se ne vanno.Equesto ci ha fatti sentire un po' soli. La gente, poi, all'inizio non era molto affabile: sembrava distante e non dava confidenza. Bisogna mettere nel conto anche il problema della lingua: la maggioranza della popoDa sinistra, padre Mathieu Kasinzi, frate/ Maurizio Emanueli, suor Redenta Maree Nabei, padre Armando 0/aya, suor Celia Cristina Baez, suor Dorota Mostowska esuor Anna Bacchion. 1111 1111 111111 lazione non parla il francese, ma solo il somalo e un poco l'arabo. CON LA CROCE••. NASCOSTA A un anno di distanza ci siamo inseriti a pieno nel nostro ambiente di lavoro e non ci sentiamo più tanto soli. Fratel Maurizio, dopo un anno di tirocinio sotto la guida della preside, ha fatto amicizia con gli insegnanti, con i genitori degl i studenti e sta assumendo la piena responsabilità della scuola; padre Mathieu continua a studiare l'arabo e segue la comunità etiope; il sottoscritto ha tessuto relazioni con quelli che lavorano alla Caritas,che sono musulmani,e con i responsabili delle associazioni locali che vengono a chiederci aiuti. Sono nate delle belle relazioni personali, non so ancora se per vera amicizia o per interesse; tuttavia ho avuto l'opportunità di entrare nelle loro case e di prendere il tè o una bibita con loro, godendo di un'ospitalità semplice, ma genuina. Succede anche questo: un signore molto gentile mi invitò a conoscere il porto, suo posto di lavoro. Mentre ci recavamo sul luogo, con molto rispetto mi chiese di nascondere sotto la camicia la croce che portavo al petto. Discorrendo mi spiegò il perché:tutti sapevano che lui era musulmano,mentre io, con il mio crocifisso, mi dichiaravo pubblicamente cristiano; al vedermi in mia compagnia, i suoi amici avrebbero pensato male di lui, cioè, che volesse convertirsi al cristianesimo. Lo stesso fatto mi capitò con un giovane che lavora alla Caritas:accompagnandomi un giorno a cercare dei ragazzi di strada, mi chiese di nascondere il crocifisso sotto la camicia, altrimenti la gente l'avrebbe criticato. Di solito vado in giro con la croce ben visibile sul petto, ma nessuno fino ad ora mi ha detto nulla, per il fatto che sono un europeo. Ma un prete africano che, in passato, portava pure lui la croce sul petto, ricevette le rimostranze della gente, perché, nell'immaginario comune, essendo africano, doveva essere anche musulmano. Alla Caritas vengono molte persone per chiedere aiuti di vario genere; persone che poi ritornano e con le quali cerco di attaccare bottone. Ne nasce così un dialogo amichevole, che riprende ogni volta che tornano.Una di queste, che viene con una certa frequenza, un giorno mi disse: «Mi piace dawero venire a chiacchierare con te; però mi sento ~- ---------------------------------------------------- ---- ------------------------------------- MC APRILE 2006 • 11
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