DOSSIER - - PER I.E STRADE DI TIRANA UN SAI.TO 01.TRE I PREGIUDIZI La prima volta che venni in Albania, nell'ottobre di cinque anni fa, partii piena di pregiudizi e fantasie sul Paese delle Aquile ed i suoi abitanti. Ricordo che, mentre attendevo l'aereo che da Bologna mi avrebbe portata a Tirana, guardavo agli albanesi all'imbarco con una certa diffidenza. Il loro abbigliamento spesso fuori moda rispetto a quello italiano, le valigie un po' sciupate, i clandestini sul mio stesso aereo che venivano rimpatriati, le ragazze col trucco pesante: tutto sembrava contribuire ad alimentare l'immagine degli.albanesi che avevo acquisito dai media italiani. E facile, purtroppo, lasciarsi prendere dal senso di superiorità quando si è ignoranti, owero quando non si conosce. lo, allora, conoscevo quasi niente del popolo albanese, ed erano tutte immagini derivanti da ciò che i mass media volevano che vedessi. LA PRIMA VOLTA Il Tupolev dell'Albanian Airlines (i cui interni non erano proprio in condizioni ottimali) mi portò direttamente all'aeroporto Nene Tereza. Quest'ultimo, allora, era ancora senza nastro trasportatore per le valigie, che quindi venivano buttate alla rinfusa in un angolo, dove era bene affrettarsi a prenderle, prima che qualcun altro lo facesse impropriamente al posto tuo. Mi bastò un mese per innamorarmi dell'Albania, un paese con tanta voglia di rinascere, di raggiungere, o almeno sfiorare con la speranza, l'Italia e quella ricchezza che emergeva dalla televisione italiana. Mi innamorai di Tirana, con le donne che vendevano banane in Piazza Skanderbeg, le biciclette appese sui muri fuori dalle finestre e tante parabole sui vecchi palazzi con la biancheria stesa. A Fier e nei villaggi limitrofi fui accolta da famiglie poverissime, che mi donarono quel poco che ave40 ■ MC MARZO 2006 vano (l'ospitalità albanese non ha paragoni), e con le quali ho condiviso pranzi poveri di cibo ma ricchi di gioia nell'avere ospite un'italiana. Mi chiesero se fosse vero che tutti gli albanesi, in Italia, facevano gli ingegneri. Questo mi fece sorridere, mentre dentro di me pensavo come fosse semplice comunicare con loro anche senza conoscere la lingua: bastava «aprire il cuore», e tutti ci capivamo. Certo, la situazione economica e sociale era difficile e la vita faticosa, ma forse anche per questo nacque un'amicizia con una ragazza albanese che ancora oggi resta una delle persone a me più care: da me non si sentiva giudicata, con un'italiana poteva sfogarsi, senza sentirsi oppressa dall'opinione della gente capace di marchiarti a vita. Dovetti lasciare l'Albania dopo solo un mese, con una grande voglia di tornarci ed un'immagine divertente di cui fui spesso spettatrice dal mio balcone: la gente che si puliva le scarpe nelle pozzanghere sotto il mio palazzo. Non ne capii l'utilità (la scarpa rimaneva comunque sporca, se non peggio), così come di tante altre cose di cui ancora oggi faccio fatica a cogliere il senso: il toccarsi il naso quando qualcuno ti fa un complimento, il leggere i fondi di caffè ogni giorno per indovinare il tuo destino, l'utilizzo del raki per qualsiasi mal di denti-gola-testaschiena, da bere o da strofinare sulla parte dolente, o il pensare e dire la parola «Marshallah!» quando vedi un bambino o una donna bella, per scacciare il malocchio. IL RITORNO Ed oggi eccomi di nuovo qui, que~ta volta a Tirana, esattamente cinque anni dopo. E il 3 novembre, giorno in cui i musulmani festeggiano la fine del digiuno del ramadan. Tu,tte le scuole sono chiuse, e così gli uffici pubblici. E una bella mattinata di sole, che ti mette di buon umore. Decido di uscire senza una meta precisa, col solo scopo di passeggiare ed osservare la vita albanese trascorrere intorno a me. È presto e l'aria è ancora fredda, ma come sempre le ragazze albanesi sembrano non sentire freddo o gelo, e passeggiano con pance scoperte, scollature vertiginose, jeans strettissimi calati sul fondo schiena e tacchi a spillo. L'ossessione delle ragazze albanesi di essere supersexy è dawero curiosa, e mi fa sentire sempre come fossimo in primavera, anche quando io, invece, indosso sciarpa, guanti e cappotto. Mi dirigo subito ai giardinetti vicino a casa mia, di fronte allo Stadio Dinamo. Mi piace osservare gli anziani che chiacchierano tranquilli, tutti con cappello, vestito, camicia e gilet, seduti sulle panchine verdi e gialle. Mi da' un senso di pace. Noto che alcuni di loro, mentre parlano, sgranano il rosario islamico. Chissà cosa significa... forse fa' sentire loro che non sono soli, che Dio c'è, e che loro non se ne dimenticano. Il rumore del generatore acceso del panificio nell'altro lato della strada, che insieme a molti altri fa un
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