DOSSIER giamo allo stesso modo (magari Mc Donald's), vestiamo allo stesso modo, pensiamo (o non pensiamo) allo stesso modo, compriamo di tutto e di più e promuoviamo la competizione. L'«io» si sostituisce al «noi», il tessuto sociale si scolla, la solidarietà si perde o al massimo viene promossa dalle banche (quelle stesse che danno un grande aiuto alla devastazione del pianeta, ad esempio finanziando gli oleodott! in Amazzonia o i fabbricanti di armi). Allora, se tutto è merce, perché non può esserlo anche la salute?, pensano le multinazionali del farmaco, che iniziano adifendere con i denti i cosiddetti «brevetti». Difenderli, perché in India, in Thailandia, in Brasile e in altri paesi del Sud si producono farmaci a basso prezzo (circa l O volte in meno del prezzo praticato dalle multinazionali), nonostante le mdlecole chimiche appartengano alle ditte, tutte rigorosamente nordamericane ed europee, che le hanno scoperte e che non vogliono vedere ridotti i propri guadagni. Assoldati i migliori avvocati, le multinazionali attaccano: «Come vi permettete di produrre senza la nostra autorizzazione i farmaci che noi abbiamo scoperto e per di più a venderli sottocosto?». Certo, la concorrenza è - stando ai canoni del mercato neoliberista - «sleale», ma permette che almeno 8 milioni di persone l'anno possano accedere a cure altrimenti troppo costose, salvandosi la vita per malattie che in Occidente ormai non sono più causa di morte. «Ma noi usiamo i soldi per fare ricerca», ribattono le multinazionali, salvo poi scoprire che degli incassi megamiliardari solo una piccola parte viene reinvestita in ricerca, diciamo il 20%, mentre il resto è puro profitto. Tra l'altro, della quota spesa per la ricerca la parte maggiore è investita per malattie tipiche delle società ricche: diabete, obesità e via discorrendo. A proposito di obesità (5), che razza di società è la nostra, che spacciamo per portatrice dì valori contro il rischio di un «meticciato» catastrofico (come ha sentenziato il presidente Pera, la seconda carica dello stato italiano) e che riesce a produrre obesi e bulimici quando un miliardo dì persone vivono con un dollaro al giorno e muoiono di fame? PSICOFARMACI: UTILI (CON MOLTI «SE» E MOLTI «MA») Stabilito che la salute può rappresentare un business, anche la salute mentale può esserlo. In fondo, I' l % della popolazione mondiale è ammalata di schizofrenia, circa il l 0-1 5% di depressione e poi c'è sempre l'ansia che è un bel terreno di lavoro. Si tratta solo di trovare la strada giusta, per esempio favorire la ricerca delle neuroscienze, in fondo questo è un campo ancora poco esplorato e conosciuto. Una volta analizzati fino alle più piccole sfumature i recettori cerebrali, potremo preparare psicofarmaci sempre più sofisticati, che differiscono tra loro per cose minime. Così per ogni classe vai con la fantasia: per gli inibitori della serotonina che bene funzionano nella depressione ecco un gran numero di molecole, ognuna poi prodotta da più case farmaceutiche e così tra Seropram, Sereupin, Seroxat, Fluoxeren, Prozac, Maveral, Fevarin, il cittadino si perde. Attenzione, non che questi farmaci non funzionino. Anzi, sono una grande scoperta. Dov'è il trucco, allora? A più livelli, direi: da un liltO creare una medicalizzazione eccessiva dei problemi, dall'altro una fiducia totale e acritica nel progresso delle neuroscienze. Ma - si può obiettare - c'è la preparazione dei medici e la deontologia?Vero, però consideriamo due aspetti. Da un lato come si svolge il lavoro dei medici (6), condizionati da una ricerca finanziata dalle multinazionali eda un aggiornamento gestito soprattutto dagli informatori farmaceutici (7). Dall'altro, guardo alle scuole di specialità, dove i futuri psichiatri vengono prevalentemente abituati a ragionare in termini di sintomi e in cui - mi si permetta di esagerare - le emozioni rischiano di essere considerate «tempeste chimiche». Manca solo un passaggio, ormai ed è quello di riprendere il concetto neoliberista del vincente, della fiducia nella scienza, un modello di mondo dove è bandito il dolore, dove non si parla della morte come di un aspetto della vita, ma - al contrario - dove la si esorcizza cercando di restare eterni giovani trapiantandosi i capelli, facendosi spianare le rughe, livellare l'addome, rimodellare il seno, le labbra, il naso e via discorrendo. Ese per caso c'è un incidente di percorso allora via con la soluzione magica del farmaco! Ma negare la morte significa promuovere un mondo falso, negare la sofferenza significa negare la compassione, la solidarietà, la dimensione spirituale, il diritto per tutti di reclamare i diritti negati. Intendiamoci: non nego l'utilità dei vari psicofarmaci (si veda latabella), che io stesso uso .e anche con buoni risultati. Quello che mi spaventa è l'uso improprio delle categorie diagnostiche non tanto da parte degli psichiatri, che al massimo si adeguano, ma dalla «costruzione collettiva» nella mente delle persone comuni. In tal modo, si arriva a confondere il dolore con la malattia, a scindere la sof- ·~--------------------------------------------------------~-----~----- 28 ■ MC GENNAIO 2006
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