Missioni Consolata - Settembre 2002

MISSIONI CONSOLATA 62 SETTEMBRE 2002 C aro padre Bernardi, scrivo questa lettera a proposito del movimento politico contro gli immigrati che in questi anni è cresciuto in Italia e in Europa. Lo faccio con un mix di dolore, stupore e rabbia. Non mi offenderò se i lettori di Missioni Consolata mi accuseranno di aver scritto queste righe sotto l’influenza di qualsiasi delle sensazioni precedenti. Però non posso farne a meno. Me lo chiede la mia storia personale, intima, familiare, quotidiana. Sebbene ci siano ragioni storiche che mi provano il contrario, continuerò a pensare che l'Italia sia anco- ra quel grande e bel paese che i miei nonni sogna- rono fino alla morte. Sempre ricordavano visi, pae- saggi, odori, angustie dell’Italia lontana, sebbene a loro l’Argentina avesse dato tutto: braccia aperte, amore, lavoro, figli e nipoti. Sono migliaia e migliaia gli esuli che oggi abbando- nano questo paese che non riesce a stabilizzare la propria storia, una storia senza dubbio benedetta dalle lacrime di coloro che sfidarono la nostalgia per illudersi con un futuro. Per questo non posso credere che quell’Italia di emigranti si sia converti- ta in una signora ricca, grassa ed egoista, capace di rifiutare coloro che le chiedono ospitalità. Mi addolora constatare che anche con documenti in regola e un passaporto che li accredita come citta- dini europei molti dei miei connazionali con doppia nazionalità si sentano fuori posto e discriminati su un suolo, che fu la terra dei nostri avi. Perché ormai non interessano più i lega- mi. Perché - ammettiamolo - a nessuno importa che ancora esi- stano vincoli che ci uniscono. Mi addolora pensare che la storia sia passata senza lasciare tracce e che neppure le sofferenze del pas- sato servano per ricreare nuovi legami tra i popoli. Mi addolora pensare ai miei nonni, che scap- parono dagli orrori di un’Italia umiliata dalla fame e dall'incubo della guerra, possano essersi sba- gliati nel trasmetterci l'amore per quella terra e la famiglia, il rispet- to e l'orgoglio per il lavoro, la capacità di ringraziare. Mio nonno Beppo, che venne da Vicenza, era falegname. Quando si sposò con Alba, che era arriva- ta da Treviso, con il legno delle piante argentine si costruì i suoi propri mobili. I nonni morirono, ma i loro mobili sono ancora qui con noi, perché mai potremmo fare con essi legna per il fuoco, né consegnarli a mani estranee. Semplicemente perché essi formano parte della nostra memoria familiare come le foto, le let- tere ingiallite, i vecchi bauli e i sogni. Soprattutto i sogni. Però vedo che l'Italia sta facendo cenere delle sue riserve. E non parlo delle riserve materiali che - gra- zie a Dio - l’hanno resa grande economicamente, bensì di quelle che nutrono i popoli, che ne costi- tuiscono l’identità. La storia potrà dirmi se le mostruosità che oggi si pretende di fare con i milioni di immigrati in Europa finiranno per assomigliare a quelle che fecero vari mostri ideologici del passato e se, in definitiva, niente è cambiato eccetto i posti a tavola. Debbo ancora ricordare che 60-70 anni fa erano l'Italia e l'Europa tutta che battevano ad altre porte, ricevendo alloggio e calore in molti paesi dell'America, dal nord al sud. Per questo mi stupisco nel constatare che quell'Italia e quell’Europa di emigranti (milioni di figli che esse non potevano mantenere) oggi si inte- stardiscono a invecchiare sole ed isolate, racco- gliendosi a difesa della propria ricchezza, temendo che gente venuta da fuori possa portargliela via. Quello che non si comprende (o che non si vuole comprendere) è che gli affamati e gli esclusi non sono ladroni, ma vittime; non sono usurpatori, ma bisognosi. In definitiva, sono uomini, donne, bambi- ni che chiedono un pezzo di pane, cioè qualcosa di sacro e considerato come uno dei diritti umani fon- damentali. L'unico documento che queste persone possono presentare è la loro povertà e questa non è di certo un delitto. Al contrario, dovrebbe essere la carta di presentazione per qualsiasi richiesta di soccorso. L'Antico testamento ci ricorda che con l'esercizio permanente della memoria, la tradizione e i legami il popolo di Dio si aprì il passo per attraver- sare il deserto. Allo stesso modo, oggi, noi che ci chiamiamo catto- lici sosteniamo che nell'eucaristia e nella orazione ci uniamo a tutti gli uomini, specialmente ai più poveri, deboli, indifesi. Però que- sta fede comune, questa identità genetica, quella memoria orgo- gliosa sta cedendo alla dimenti- canza. E la storia universale ricor- da che una società senza memo- ria finisce per autodistruggersi. Forse è più facile essere solidali con uno sconosciuto senza faccia e senza voce. Forse è meno com- promettente inviare una nave piena di aiuti alimentari che apri- re la porta a un indifeso. Mi piacerebbe continuare a pen- sare, qui in questa Argentina che soffre, che l'Italia possa conser- vare le sue riserve morali, questa eredità che ci fu lasciata dai nostri nonni: la capa- cità di non nascondere la mano a chi ti chiede aiuto, né di morderla a chi ti ha dato da mangiare. Perché neppure i cani mangiano i propri simili. Sarebbe un sacrilegio. Credo nel vangelo di Cristo e per questo continuo a credere nell'uomo, nonostante la rabbia che in que- sto momento porto nel mio cuore. Una rabbia che però sarà passeggera. Deve esserlo. lettera firmata da Buenos Aires, Argentina Grassa, ricca ed egoista? Lettera da Buenos Aires

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