Missioni Consolata - Maggio 2002

MISSIONI CONSOLATA 63 MAGGIO 2002 missionarie), intervenire nei mezzi di comunicazione per far passare un nuovo modo di percepire gli altri. La natura stessa della vocazione missionaria è dia- logica. L'incontro con l'altro, il di- verso, il nuovo è pane di ogni gior- no: un esercizio giornaliero che do- vrebbe allenarci ad essere persone capaci di empatia, di «compassio- ne». Chi apre e legge il libro della missione trova questo capitolo di estrema attualità. Oggi in Italia assistiamo preoccu- pati ad un ritorno di ideologie xe- nofobe, con posizioni intransigenti a tolleranza zero; assistiamo ad un regresso culturale. È caduto il mu- ro di Berlino, ma se ne stanno eri- gendo altri, invisibili, ma forse più massicci. E sembra che questo non incida sul nostro «quieto vivere»! I casi sono due: o la vita missiona- ria ci è passata sopra, senza forgiare minimamente il nostro essere, o non siamo informati: gravissimo pecca- to pure questo. L'informazione cri- tica, l'approfondimento serio, la ri- cerca e lo studio devono essere una delle nostre principali attività. Dialogo esige conoscenza, ascol- to, competenza. Sono finiti i tempi in cui bastava raccontare la storia del «moretto». Oggi la gente vuole conoscere i perché delle tragedie che assillano il Sud del mondo; vuo- le sapere quali e di chi sono le re- sponsabilità dei disastri umanitari. Qui e in missione dobbiamo essere responsabilmente preparati. Dialogo è anche collaborazione: tra missionari e con i laici. Ma non lasciamoli entrare solo dalla porta di retro, ossia in qualità di subalter- ni, senza diritto di parola. Sono in- vece persone che possono aiutarci a leggere criticamente la realtà nella quale viviamo. I poveri, ragione prima e ultima della nostra vita. Però mai una parola come «poveri» è sta- ta tanto usata e abusata. I poveri so- no diventati oggetto di estenuanti riflessioni, documenti... Eppure, chissà perché, mai come adesso sono così lontani da noi. Ci siamo talmente adeguati a mettere «a norma» le nostre case, che non c'è quasi più posto per chi «a norma non è». Abbiamo paura di infran- gere le leggi dello stato e perdiamo la forza di «contraddizione» (come Gesù, segno di contraddizione!). Non possiamo avere due regole di vita: in missione e in Italia. Se sei di- sposto al martirio là, devi essere di- sposto a infrangere le leggi anche qua, che diminuiscono la testimo- nianza evangelica. Davvero ci siamo incarnati, fino a far causa comune con gli emargina- ti? Il nostro stare con i poveri è nel ruolo di «compagni di viaggio» ver- so un mondo più giusto? Oppure, facciamo sentire il peso del nostro vantaggio economico, culturale, spi- rituale? Partire è la nostra parola d'ordine, anche se a volte non sappiamo bene verso dove. Talvolta non si capisce bene se è «fuga» o un partire verso qual- cuno, uscendo da noi stessi. Non basta divorare chilometri per sen- tirsi missionari: la partenza che ci viene richiesta è più radicale e me- no avventurosa. Ripartire, ogni giorno e ogni mo- mento, per andare incontro all'al- tro... Nel libro della missione ci so- no parole essenziali, che dobbiamo ricuperare: passione, gioia, fermez- za; devono sostituire... negatività, stanchezza, istituzionalizzazione del carisma. La missione ci richiede di essere, più che assertori di certezze, umili ricercatori di verità... profeti in cam- mino verso il Regno. Se scordiamo la chiamata, l’essere noi stessi «terra da evangelizzare», la nostra attività sarà come il muoversi «di un mare agitato che non può calmarsi, e le cui acque portano sumelma e fango» ( Is 57, 20). Non conformiamoci alle regole della società, per non fare l'antimi- racolo: trasformare il vino in acqua! (*) Elisa Kidanè, missionaria combo- niana eritrea, ha operato in Ecuador. Oggi è redattrice di Raggio . Da sinistra: padre Rigon, p. Pasqualetti (presidente Cimi), p. Storgato (segretario Suam) e suor Margherita Alberti. Sotto: missionarie della Consolata.

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