Missioni Consolata - Maggio 2002
MISSIONI CONSOLATA 62 MAGGIO 2002 L’ invito proposto al Convegno di Bellaria (1998) fu di «aprire il libro della missio- ne ». E fin qui, niente di speciale: possiamo aprirlo e lasciarlo sulle no- stre scrivanie. Occorre, invece, leg- gere e lasciarci mettere in discussio- ne. Aprire il libro richiede movi- mento, gesti dinamici per passare dal «fare» all'«essere» missione. Come tutti i libri, anche quello della missione ha una premessa, dei capitoli e un epilogo. Ma non ci deve essere la parola «fine». Una premessa: è la chiamata dei dodici da parte di Gesù, che li scelse per averli con sé e mandarli poi a predicare due a due. Leggeri nell’«equipaggio», non avrebbero dovuto essere maestri di retorica, ma persone dal linguaggio schietto, astuti e docili; insomma, non semplicioni e neppure saccen- ti, capaci invece di coniugare amore CHE IL VINO NON DIVENTI ACQUA ! Riflessioni proposte ai missionari nel Convegno di Ariccia/Roma (4-8 febbraio), utili anche a chi ha a cuore una chiesa diversa, più missionaria. di Elisa Kidanè (*) e giustizia. Li avvertì che non sempre avreb- bero trovato dove posare il capo; anzi, sarebbero stati odiati a causa sua. E, compiuta la missione, nien- te gloria, ma solo e semplicemente essere considerati «servi inutili». Unico segno di potenza: la croce! All’origine di ogni vocazione, c'è sempre l'i- niziativa di Cristo e la risposta del- la persona chiamata. Lo scopo del- la scelta è duplice: condividere la sua vita e continuarne la missione di incarnazione, annuncio e testi- monianza. Questo aspetto della chiamata è essenziale, per non di- menticare le nostre origini e corre- re il rischio di invertire i ruoli, sen- tendoci datori di lavoro, importan- ti, onnipresenti, indispensabili! Vogliamo costruire il Regno... e non abbiamo tempo di stare con Lui, dimenticandoci di un piccolo particolare: che il Regno è già ini- ziato! A noi tocca annunciarlo, sco- prirlo e farlo conoscere. Il Regno c'è; non siamo noi che lo inventia- mo; ma spesso assumiamo atteg- giamenti da «architetti». Si annuncia quello che si ha den- tro, l'esperienza personale. Questo ci insegna la missione, ed è quanto le nostre chiese madri si attendono da noi. La chiesa italiana chiede ai missionari spirito apostolico, entu- siasmo evangelico, tenacia e testi- monianza (martirio), per rivitaliz- zare il cammino delle comunità cri- stiane dell'Occidente. La presenza di istituti missionari in una chiesa locale non può né de- ve passare inosservata. Anche per- ché (forse non lo sappiamo), siamo considerati gli esperti dell'annun- cio e siamo chiamati ad animare la comunità cristiana. Lo abbiamo fatto e lo facciamo con disinvoltu- ra in terre geograficamente di mis- sione, ma con la nostra gente ci ri- troviamo timidi, paurosi e ritrosi. Ci sentiamo inadeguati e stranie- ri in casa nostra?Non sappiamo più metterci in sintonia con il popolo?... Perché in missione ti senti grande, capace e qui, dove sei nato, ti senti balbuziente?... Animare la propria chiesa è certamente meno gratifi- cante, ma è altrettanto urgente e in- dispensabile. La nostra presenza deve essere viva, quasi un pungolo che stimola, porta al confronto e obbliga all'azione. Però essere missionari non signi- fica fare i supplenti. Oggi in Italia si stanno creando situazioni di mis- sione, di rievangelizzazione. La ten- tazione è di affidare «agli addetti del mestiere» zone o situazioni con- siderate di frontiera. Da parte no- stra è doveroso privilegiare questi servizi, ma è compito della chiesa locale fronteggiare tali realtà e tro- vare risposte adeguate. Come, per esempio, la cosiddetta missione che «viene a noi», cioè il fenomeno mi- gratorio. Dobbiamo privilegiare i campi di animazione missionaria, avere una presenza nei seminari diocesani (e non solo con missionari, ma anche
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