Missioni Consolata - Maggio 2002
ce sono subissata da una valanga di domande sulle questioni capitali del nostro tempo: educazione dei giova- ni, droga, famiglia, immigrazione, rapporto chiesa-società. Evidente- mente sono tutte questioni che stan- no molto a cuore alle mie interlocu- trici, perché sono problemi che la gente si trova ad affrontare negli ul- timi tempi. L’epoca post-sovietica ha reso pa- lesi vecchi mali, prima taciuti nelle statistiche ufficiali, e apertonuove fe- rite. La nuova «società aperta» si è trovata impreparata a far fronte, di punto inbianco, a situazioni che han- no assunto dimensioni catastrofiche, a causa del disorientamento genera- le del periodo di transizione: il sem- pre più massiccio uso di droghe tra i giovani ne è un esempio. Negli ulti- mi cinque anni il numero dei tossi- codipendenti registrati nella struttu- ra pubblica è cresciutodi 12 volte; tra gli adolescenti addirittura di 30 vol- te; dal 1996 i malati di Aids sono au- mentati di 300 volte: il 70%di essi so- no tossicodipendenti. Le giornaliste della rivista sono ve- nute all’incontro con il desiderio di imparare dall’esperienza di un altro paese e farne tesoro. Mi ascoltano con avidità, riconoscenti per quel poco che posso raccontare. Si stupi- scono di quanto comuni siano i pro- blemi e simili le situazioni nei nostri due paesi. Anch’iomi meraviglio per la sintonia di giudizio delle ospiti ta- tare nel valutare i fenomeni dellamo- dernità. Siamo intorno al tavolo da due o- re; la giornata lavorativa è finita; ma nessuno accenna ad andarsene, tan- to è il piacere di un incontro che ri- vela impreviste affinità. Non capita spesso di sperimentare come tra due mondi, creduti lontani mille miglia, si trovino vicini nella comune preoc- cupazione per un futuro incerto e nella professione di identici valori. A una trentina di chilometri da Kazan’ si trova il monastero maschile di Raifa, dal nome dei santi eremiti del Sinai e Raithu (in russo Raifa), massacrati nel VI seco- lo da bande di razziatori. I monaci vi ospitano ed educano un gruppo di ragazzi di strada. La bellezza del luogo mi rapisce, non appena scendo alla fermata del- l’autobus e imbocco la stradina che dalla provinciale conduce all’ingres- so del convento: tutt’intorno boschi centenari, poco lontano un tranquil- lo specchio d’acqua. Sono investita da un senso di pace che, varcata la porta del convento, si arricchisce di un sentimento di stupore e ricono- scenza per chi ha saputo rendere quel luogo così accogliente. Il monastero è lindo, ridente, pie- no di visitatori. È un giorno feriale; eppure si respira un’aria di festa. Sarà forse per il sole e l’aria tersa che fanno risaltare i colori: il bianco de- gli edifici, l’oro delle cupole, le sgar- gianti tinte dei fiori, il nero delle ve- sti dei monaci. Èmai possibile che fi- no a circa 10 anni fa il convento fosse in rovina e le sue chiese abbiano o- spitato un carcereminorile? Percor- rendo i lustri viottoli tra un edificio e l’altro, ci si ricorda a fatica degli an- ni bui del periodo sovietico; sembra che questi monaci sorridenti abbia- no da sempre abitato questo luogo di serenità. Desiderando scambiare due paro- le, mi avvicino timida a un monaco dalla faccia bonaria, con la speranza che non trovi importuna la mia cu- riosità. Il monaco altri non è che il priore, padre Vsevolod e non si di- mostra affatto sorpreso che voglia fargli delle domande. Non sono la prima straniera a interessarsi del mo- nastero. Gli chiedo subitodei ragazzi da lo- ro adottati. «Il primo è arrivato chis- sà come nel 1994. Ha trovato la stra- da da solo. Dietro di lui sono arriva- ti gli altri. Quasi tutti con alle spalle storie pesanti di maltrattamenti, a- busi e violenze. Ora nel monastero a- bitano 20 ragazzi, dagli 8 ai 18 anni. Da quando sono qui, la loro vita è cambiata completamente e, soprat- tutto, èmutato il loro atteggiamento nei confronti del mondo degli adul- ti, prima guardato con paura e so- spetto. Frequentano insieme la scuo- la, a qualche chilometro di distanza; sono circondati dalle cure dei mo- naci, che ne completano l’educazio- ne, non solo insegnando il catechi- smo, ma anche con lezioni di arte, musica e canto. D’estate, poi, il con- vento organizza loro vere e proprie vacanze. Quest’anno, per esempio, sono andati tutti sul Mar Nero. Venti giovani, in confronto alle migliaia di ragazzi abbandonati, mal- trattati, fuggitivi che percorrono le strade della Russia, sono una goccia nell’oceano; ma è pur sempre un se- gno di speranza». Padre Vsevolod è raggiunto da al- cune persone che vorrebbero par- largli. Ho un’altra cosa da doman- dargli, prima di lasciarlo andare. A- vendo visto nel vicino villaggio una moschea, la domanda è d’obbligo: «Quali sono i loro rapporti con i fi- gli dell’islam?». «Basti dire - risponde padre Vse- volod con aria sorniona - che nel ter- ritorio di una cooperativa agricola, non lontano da qua, si sta costruen- do una moschea. Sapete chi ne ha pagato il progetto?Noi. D’altra par- te, quando abbiamo cominciato a ri- costruire il monastero, so- no stati i musulmani loca- li i primi ad aiutarci». Mc La principessa Sjujumbekì. Sopra: la redazione della rivista in «turki», la lingua dei tatari. A lato: una copertina della rivista.
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