Missioni Consolata - Maggio 2002
«C i sono esperienze nella vi- ta che non si possono di- menticare: una di queste è stata la mia infibulazione. Nel nostro villaggio c’era una donna specializ- zata in questo genere di operazioni, che le praticava senza anestesia e con utensili artigianali (coltelli da cucina, rasoi, forbici)». Prende fiato Aisha , una bella ra- gazza somala di 30 anni, mentre ini- zia il suo racconto percorrendo, a ri- troso nella memoria, i ricordi di un evento traumatico. «Avevo otto an- ni - continua -, stavo giocando a pal- lone con alcune amiche e cuginette, in mezzo alla strada, davanti alla ca- sa di mia nonna. All’improvviso ar- rivò correndo mia sorella, Zahra, che disse: “Vieni, dài, stiamo per essere infibulate...”. Era felice. Ci avevano detto che era un grande evento e che, per l’occasione, avrebbero ucci- so un pollo e ci avrebbero offerto dei dolci. Quindi mi alzai e, felice, corsi via con lei. Entrammo in una casa poco distante, dove abitava una vec- chia levatrice. Toccò per prima a mia sorella, di un anno più grande di me. La donna, con l’aiuto di mia madre e mia nonna, fece stendere la sorella su una stuoia. Io rimasi nella stanza a fianco, seduta per terra, silenzio- sa, come paralizzata. La sentii urla- re. Il suo dolore mi sembrava atroce: mi entrava nelle orecchie e mi impe- diva di respirare. Ero terrorizzata. Una violenta ribellione si imposses- sò di me. Feci per fuggire. Non capivo bene che cosa stesse accadendo, ma certamente, regali o no, non volevo soffrire. “Non voglio più essere cucita” gridai con quanto fiato avevo in gola. Ma la nonna mi afferrò stretta e, aiutata da una vi- cina, mi adagiò su un materasso. Poi si sedette dietro di me e mi tenne aperte le gambe, come in una mor- sa. La vecchia ostetrica aveva termi- nato il lavoro di ricucitura. Mia so- rella ora se ne stava quieta, come un animale ferito, senza forze e senza volontà, sulla stuoia ancora insan- guinata. Era il mio turno. Sentivo crescere la disperazione e la rabbia. In gi- nocchio, di fronte a me, la vecchia mi guardava sicura e severa. Con un esperto colpo di coltello mi tagliò la clitoride e le piccole labbra, senza anestesia. Allora non si usava anco- ra; ora sì, in ospedale, dove l’infibu- lazione è praticata dai medici. Furono minuti indescrivibili: il col- tello grondava sangue, mentre io ur- lavo come un animale al macello; non capivo perché mi stessero fa- cendo quel male. Mia madre e mia nonna mi rassicuravano dicendo che stavo per diventare una donna, che avremmo festeggiato tutti insieme l’evento, che erano orgogliose di me, della sorella e che, qualche anno do- po, avrei potuto sposarmi e fare dei bambini. “Sposarmi? Fare figli?” domanda- vo a me stessa mentre mi tagliava- no, e pensavo ai giochi lasciati per strada... Mi cucirono con ago e filo, lasciando un’apertura sottile per far defluire l’urina e il sangue mestrua- le. Poi mi lavarono e disinfettarono con erbe e unguenti. Infine mi lega- rono le gambe strette tra loro e mi portarono a casa della nonna, insie- me a mia sorella, dove rimanemmo immobili, distese su stuoie, per due settimane. “La ferita si deve rimar- ginare bene – ci spiegarono -; altri- menti, quando partorirete, si lace- rerà”. Storie drammatiche sulla propria pelle E non sei più come prima «Io urlavo come un animale al macello... Non permetterò mai che le mie figlie possano subire un torto simile» (Aisha). «Sono stata cucita con spine senza anestesia. La ferita mi bruciava» (Basma). «Ci hanno dato dei regali: ma con quello che abbiamo patito non sarebbe bastato tutto l’oro del mondo» (Fatima). Un parto molto doloroso 31 MAGGIO 2002 CONSOLATA MI SS IONI
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