Missioni Consolata - Aprile 2002
MISSIONI CONSOLATA 70/ II APRILE 2002 naime. Anche senza sacerdote residente, Tuthu non perde il suo fascino e rimane un centro di straordinaria forza spirituale. Nel prato antistante la chiesa c’è la famosa ruota idrau- lica, che faceva funzionare l’impianto della segheria. È stata trasportata dalla foresta e cementata al suolo. An- che questa ruota figurerebbe bene al museo, perché qui pochi la possono vedere e sta arrugginendo. Guar- dandola, non si può non ammirare quel genio che l’ha progettata, il confondatore Giacomo Camisassa, come pure la competenza dei giovani missionari che hanno perfettamente montato i pezzi arrivati da Torino. Poi la segheria nella foresta, più o meno a 5 chilometri di distanza. C’è da attraversare, a guado, il famoso tor- rente Mathioya e inerpicarsi verso il pianoro dove sor- gevano le costruzioni. Prima, però, c’è da trovare la tomba di suor Giordana, del Cottolengo, morta il 30 novembre 1903, quasi im- provvisamente, per polmonite. Fratel Benedetto Falda, nelle sue memorie, fa capire lo sconforto per quella prova: «Ma ecco: suor Giordana ci lasciò così, all’improvviso, senza un lamento, ad ap- pena 32 anni. Ci sentiamo schiantati. Noi, fratelli ven- tenni, vedevamo in suor Giordana non solo una sorel- la, ma una mamma. Adesso non c’era più... Giunti sul luogo della sepoltura, deponemmo con infi- nita pietà la bara nella fossa che avevamo scavato sotto quel tempio naturale e, copertala con delle grosse pie- tre, vi piantammo sopra una croce». Non è facile ritrovare quella croce, nascosta nella fo- resta. Finalmente, eccola, ancora in piedi, come l’ha ri- composta padre Giuseppe Richetti qualche anno fa, prima di morire. Mi è spontaneo pensare che suor Giordana è rimasta nella foresta, ormai da 100 anni, a testimoniare quegli inizi eroici ed a proteggere i mis- sionari. È una presenza di fedeltà! N on senza emozione, cerchiamo di individuare i posti delle varie costruzioni. La casa delle suore sembra riconoscibile da due cespugli di calle posti ai lati dei resti della porta d’ingresso, che continuano a fiorire. Purtroppo non riusciamo a trovare il luogo del- la casa dei padri. Invece il pianoro della segheria è fa- cilmente individuabile, accanto allo scavo in cui era si- stemata la turbina. Anche dei 400 metri del canale si intravvedono, qua e là, chiare tracce. Mezzo sepolto nel fango, scorgiamo un pesante bocchettone di ghisa, che era l’imbocco della condotta forzata e che speria- mo venga ricuperato. Dalla riva del torrente Mathioya, è bello ammirare questo ambiente, tutto riconquistato dal verde della fo- resta, e immaginare come poteva essere allora. Quei primi confratelli sono stati davvero straordinari: hanno faticato, hanno sofferto, ma sono stati capaci di impri- mere un movimento missionario di incalcolabile valo- re. Idealmente da qui sono iniziate tutte le nostre mis- sioni in Kenya. Quando viveva alla segheria, fratel Benedetto riceveva molte lettere dal Padre Fondatore. Eccone un brano dell’inizio di febbraio 1904: «Mio caro Benedetto, la tua figura svelta e schietta mi viene sovente alla mente e, nella mia camera, mi pare di vederti entrare e parlar- ci alla buona. Potessi rivederti... Ma ti vedo e ti parlo nel Signore e presso l’altare della cara Consolata, alla quale ti raccomando». Chissà quale emozione provava fratel Benedetto leg- gendo simili espressioni. Anche l’Allamano, con la sua paternità, è stato molto presente a Tuthu e poi, da qui, ha accompagnato i suoi figli verso Murang’a, Nyeri, Meru, Embu, Isiolo, Marsabit, Maralal, ovunque! L’ ultimo appuntamento non lo possiamo mancare: a fianco del minuscolo villaggio di Tuthu, in un campo coltivato a granoturco e fagioli, si trovano i resti della residenza del capo Karoli. C’è anche la sua tomba con quella di Consolata Wanjiru, sposata dopo il batte- simo. Anche Karoli è stato presente all’inizio delle no- stre missioni e merita un grazie... Non vorrei apparire nostalgico, ma devo confessare che, ritornando al Sagana, mi sono trovato a pensare che Tuthu non è solo un bel ricordo per noi: è il san- tuario delle nostre origini in Kenya. p. Francesco Pavese S crivo per raccontarvi qualcosa di importante. Mi chiamo Maria e abito a Nazaret in una modesta casetta di pietra bianca, a nord della Palestina, preci- samente nella Galilea. Vivo con Giuseppe, mio mari- to, e Gesù, il mio unico figlio. Gesù è buono, bravo, «speciale». Ogni tanto compie anche dei piccoli mira- coli, così per divertirsi. Scrivo anche a nome loro. La nostra storia potrebbe partire da un episodio ap- Casa di Nazaret MAMMA MARIA Padre Francesco Pavese, autore della presente testimonianza, con la ruota idraulica che faceva funzionare la segheria di fratel Benedetto Falda.
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