Missioni Consolata - Aprile 2002
Quando la ragazza termina il corso, è pronta per formare una famiglia. Anche così nasceranno famiglie più preparate di fronte alla vita. L’iniziativa mira soprattutto a chi non trova lavoro e non ha prospet- tive. Non ci sono scuole secondarie; la gente è povera, vive del lavoro dei campi e non ha la possibilità di pa- gare gli studi dei figli. In tale situa- zione la ragazza si rifugia in città nella speranza di trovare l’ eldorado , ma non trova nulla. La scuola rappresenta una rispo- sta concreta alle necessità delle ra- gazze; la possono frequentare anche le meno abbienti, perché si richiede una tassa annuale quasi simbolica. L’opera si sostiene con l’apporto di alcuni amici: ad esempio, è venuta fra noi una docente di una scuola tecnica di Rovereto; vista la realtà, essa stessa ha animato i maestri e gli alunni con una iniziativa di solida- rietà a distanza, gemellandosi con la nostra scuola. C’è un elemento non trascurabi- le: la scuola ha campi e allevamenti di bestiame; ciò che si produce è a favore di tutti. Quest’anno, d’accordo con gli al- tri missionari, ho aperto anche una casa per accogliere alcuni delle mi- gliaia di bambini orfani, vittime del- l’Aids dei genitori. In coscienza non me la sentivo più di lasciarli soli. Per sostenere la nuova iniziativa, in Italia sta nascendo una «fonda- zione»; chi vi aderisce offre mensil- mente un aiuto in denaro deposi- tandolo in banca. Pertanto l’orfano- trofio continuerà, anche quando io non ci sarò più. GLI AMICI DELLA MISSIONE I lettori hanno certamente capito che, alle mie spalle, vi sono persone che «spingono», desiderose di fare del bene: persone che non si accon- tentano di un’«offerta una tantum », ma che vogliono impegnarsi in mo- do continuativo per chi giace nel bi- sogno. Basta offrire loro l’opportu- nità. Basta saper collaborare. Allora vale la pena di organizza- re insieme qualcosa di bello, di cri- stiano. Io presento progetti seri e «gli amici della missione» si impe- gnano a realizzarli; anzi, incalzano me, missionario, ad affrettare i tem- pi. In questo modo tanti diventano missionari. Ho avuto la fortuna di lavorare con il Cefa (Comitato europeo di formazione agraria) di Bologna: è un’organizzazione non governativa seria, che attua progetti approvati dal governo, dall’Unione europea, ecc. Vi sono volontari che, al matti- no, recitano «le lodi» con noi mis- sionari e, alla sera, «i vespri»: gio- vani, coppie e famiglie che lavora- rono in missione entusiasti. Grazie ad essi, ho conosciuto il mondo del volontariato: unmondomultiforme e ricco. Oltre ai volontari, ci sono i grup- pi spontanei; crescono un po’ dap- pertutto: solo in Trentino se ne con- tano una settantina. Spesso sono le- gati in modo esclusivo ad «un» MISSIONI CONSOLATA 66 APRILE 2002 Nel 1986 Giorgio Torelli scrisse un libro su padre Camillo Calliari BABA CAMI L LO H o cinque ore di silenzio fino alla campana del primo e così lento albeggiare, quando Camillo sortirà di casa a passi di sentiero trentino, e andrà a bersi un caffè nella baracca dove già spira un fil di fumo azzurro. Le ragazze della missione sanno prepararglielo al buio, fra i gatti che si stirano. Camillo entrerà in chiesa e si ve- dranno le sue manone tuttofare men- tre consacrano il pane. Io ci sarò. Prima fila: otto benedettine africa- ne, soavemente nere sopra lo scapo- lare immacolato. Seconda fila: quel po’ di ragazzi che hanno trottato i chilometri del fango a piedi scalzi e diranno il Padre nostro in swahili. Padre si dice «baba». Anche Camillo è «baba». E poi, nell’ultimo banco, io col golf stropicciato e gli stivali. Si vedranno le orme dei piedi bagnati, la pianta e le dita, sul rosso del pavi- mento. Un’ora di restauro perché Ca- millo torni ad essere quel che s’è scelto: agricoltore, meccanico, fale- gname, saldatore, elettricista, alleva- tore, costruttore di tutto che gli riesca e, in definitiva, «homo faber in nomi- ne Domini». Nessuno più crede che sia lecito annunciare la parola evangelica sen- za metterla in pratica. E mi doman- do: di cosa urge l’Africa ignota, quel- la di cui non si ragiona mai, gli sconfinati paesaggi dei poveri che non avvistano prospettive perché in- sediati nelle pieghe inaccessibili di un continente travagliato? L’Africa irrisolta brama uomini che si accollino la sua stessa fame, la sete, la precarietà del destino, il dive- nire della gente, la speranza che non è mai dissipata, i sogni di avere in fi- ne quel che milioni d’uomini già pos- seggono perché hanno saputo tesse- re la propria storia in modo diverso. I o non abito in questa parte d’Africa per esaminare col bilancino (tarato da me stesso) quali siano i meriti e i demeriti degli africani che possiedo- no appena una stuoia, una zappa, tre pietre per il fuoco e il tetto di pa- glia infiltrato dai topi. E neanche Ca- millo, come tutti i padri della Conso- lata, è qui per questo. Io ci sono per vedere da vicino Camillo e i suoi. E Camillo dedica l’imbiancarsi della barba a chi non ha fortune, non sa, non s’imbatte nei giorni migliori, re- sta impantanato negli anni e ha pur diritto alla giustizia. Quale giustizia? Ma quella tessuta da altri uomini, capaci e avveduti, che gli dedichino fedeltà e fatiche. È difficile trovar sonno col girotondo dei pensieri. Ed è Montanelli che m’insorge alla mente, spilungone, la voce cupa e calibrata, le gambe da trampoliere sotto la tavola e il pane casereccio spilluzzicato. Siamo in una trattoria toscana. È marzo. Tutto s’è risolto a fagioli e vino in fiasco, fuori è un giorno piovoso e da soprabito che volteggia. Il Fenicottero viene al dun- que: «Devi farmi un viaggio. Ti scegli l’Africa che vuoi e scendi a vedere quel che io so per certo, con la me- moria e l’intuito: i missionari, vecchio mio, sono gli unici promotori di svi- luppo, i soli che diano garanzie di battere fame e pochezza perché ci mettono anima, competenza e rigore senza scadenza». (da Baba Camillo , Istituto geografico De Agostini, Novara 1986, pp. 23-25)
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