Missioni Consolata - Aprile 2002

stra missione: di fronte a chi si tro- va nel bisogno, occorre affrontare il problema e cercare di aiutarlo con- cretamente. Appena arrivato in Tanzania, nel 1969 sono stato destinato a Kisinga, una missione oggi retta dal clero a- fricano. Non c’era ancora la chiesa, ma nelle camere dei padri c’era l’ac- qua corrente. Una bella comodità, e pensavo che anche la gente l’avesse. Ma così non era: la popolazione do- veva andare ad attingere acqua in fondo alla valle. Il piccolo acque- dotto era stato costruito solo per la missione. Prolungarlo avrebbe com- portato una spesa impossibile da so- stenere. Erano anche anni molto dif- ficili per l’economia. Tuttavia mi assalì una specie di ri- morso. Mi dicevo: «Perché non si possono unire in sinergia governo, popolazione, missionari e i loro be- nefattori per realizzare un acque- dotto che porti beneficio a tutti?». Così è nata inme la vocazione de- gli acquedotti. A Matembwe, dove ho lavorato successivamente, ne ho costruiti quattro. Essendo il territo- rio collinoso, bisognava far giunge- re l’acqua dalla valle al paese abita- to, posto in alto. Abbiamo fabbri- cato grandi ruote idrauliche (simili a quelle dei mulini) per raccogliere l’acqua e poi le pompe la spingeva- no su. È quanto ho fatto anche a Ki- pengere. L’acqua è vita. Senz’acqua proli- ferano le malattie (specie il colera, che qui è endemico). Le donne poi, come schiave, sono costrette a scen- dere e salire continuamente la colli- na per rifornirsi d’acqua... Abbia- mo portato l’acqua a 7 dei nostri 13 villaggi, servendo una popolazione di 16 mila persone. Con l’acqua, c’è la possibilità di fare mattoni e, quin- di, di costruire la casa in muratura, un uso che si sta diffondendo. Quando l’acqua è arrivata nelle case, abbiamo goduto nel vedere la gioia delle donne. Prima passavo nel villaggio e mi salutavano sem- plicemente; ma, dopo l’acqua, è tut- to un sorriso. I bambini mi corrono dietro, mi chiamano per nome, mi accolgono. Sono felici. AUTOGESTIONE DALLA BASE Al presente la priorità è che l’ac- qua sia potabile al 100%. In genere essa è contaminata alla fonte; quin- di si tratta di costruire opere sussi- diarie (filtri e vasche di decantazio- ne) per renderla idonea al consumo umano senza rischi. Lamanutenzione degli acquedot- ti è in mano della gente. La norma è che, quando l’opera entra in funzio- ne, sia consegnata a un comitato che se ne prende cura. Vi sono volonta- ri italiani, tecnici specializzati, che realizzano gli impianti; nello stesso tempo preparano persone del luogo per renderle capaci di conservarli e ripararli. Non vi sono solo «doni», ma «au- tofinanziamenti» dalla base. Per as- sicurare l’autofinanziamento, ogni famiglia paga un tot all’anno; chi ha un’attività in proprio (un negozio o bar) paga di più. I soldi vengono de- positati in banca. Così ogni comu- nità gestisce il proprio acquedotto. Questo educa a sentire propria l’o- pera: tutti devono esserne respon- sabili. Ciò avviene quando i progetti si studiano e realizzano insieme. Allo- ra la popolazione partecipa con en- tusiasmo e i risultati sono ottimi. Ad esempio: in soli tre giorni si è sca- vato un solco (70 x 25 centimetri) di 10 mila metri per depositare i tubi dell’acquedotto. Tali successi inco- raggiano ad intraprendere altri pro- getti. L’unico rammarico è di non po- ter fare giungere l’acqua a tutti. So- no tantissimi coloro che la chiedo- no. Ma io non ho la bacchetta ma- gica per farla sgorgare dove non c’è. FALEGNAMI A Kipengere, quando sono arri- vato, c’erano 4 falegnami e 2 mura- tori, istruiti da un... catechista: ap- prendisti senza pretese. C’era anche un gruppo giovanile, bene organiz- zato, ma con poche prospettive di lavoro. Proprio dai giovani è parti- ta la richiesta di fare qualcosa di u- tile per la loro vita. È nata l’idea di una scuola professionale. Abbiamo organizzato due corsi: uno di falegnameria per i maschi e uno di economia domestica per le femmine. La scuola dura un trien- nio; al termine, rilascia un diploma riconosciuto dallo stato, che con- sente di essere assunti in qualsiasi industria o cooperativa. Grazie al- l’aiuto di alcuni benefattori, ogni studente ha ricevuto una cassetta di strumenti per iniziare a lavorare in proprio. Non solo: abbiamo pure costitui- to una cooperativa, dove i falegna- mi diplomati possono lavorare per due anni guadagnando abbastanza. La cooperativa è gestita dai giovani, che lavorano su ordinazioni, e il ri- cavato viene diviso equamente. In questo modo, dopo 5 anni, un giovane esce dalla scuola con un di- ploma, una professione, una casset- ta di strumenti e un piccolo gruzzo- lo per cominciare un’attività. A vol- te lo fanno mettendosi in società, assistiti dalla cooperativa madre. La cooperativa è nata grazie al so- stegno di un’importante azienda e- dile di Trento. Un socio della ditta, Bruno (ha lavorato pure come vo- lontario a Kipengere), è deceduto; in suo ricordo, l’azienda ha offerto 40 milioni di lire alla cooperativa. Altri volontari della stessa azienda hanno donato gli strumenti di lavo- ro per gli studenti e sono venuti in loco per piazzare le macchine e si- stemare il capannone. SARTE, E NON SOLO Nella scuola di economia dome- stica per le ragazze si insegna di tut- to: taglio e cucito, un po’ d’inglese e matematica, cucina, orticoltura, allevamento di bestiame minuto... MISSIONI CONSOLATA 65 APRILE 2002

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