Missioni Consolata - Aprile 2002
to, per un litigio tra il parroco e il di- rettore distrettuale, che era kikuyu: la scuola si era riempita di kikuyu ; i samburu erano ridotti a 40 bambine. Per prima cosa accettai la storia e ristabilii le relazioni. Saint Mary’s fu restituita e mi impegnai personal- mente nella ricostruzione. Cercai i collaboratori; chiesi come direttrice una suora conosciuta a Wamba. Dopo cinque anni la Saint Mary’s era diventata una scuola modello, balzata in tutto al primo posto: per insegnamento, profitto accademico, sport e attività varie. Quando veniva un personaggio, le autorità lo porta- vano con orgoglio a visitare Saint Mary’s . Mai dimenticherò un pomeriggio favoloso, quando le bambine torna- rono vittoriose dalle olimpiadi sco- lastiche: le coppe elevate al cielo e il coro fortissimo che cantava: «Siamo le bambine di Ramponi». Mi viene ancora la pelle d’oca. Devo dire che il mio lavoro non fu isolato. Con i padri del distretto dei samburu avevamo creato una frater- nità di dialogo e solidarietà. Ogni mese ci incontravamo e parlavamo di tutto: lavoro, difficoltà, organiz- zazione, pastorale, cultura, progetti. Ricordo quel tempo come una espe- rienza bellissima di sintonia, apertu- ra, entusiasmo e forza apostolica. AFRICANI URBANIZZATI Al Capitolo generale del 1975 fui scelto come delegato regionale e rap- presentante continentale nel comi- tato di preparazione. In assemblea passò l’idea di creare l’ufficio gene- rale di ricerca e pianificazione pa- storale, ma ebbe vita difficile per le resistenze di vecchie prerogative. Tornai aMaralal deciso ad attuare le indicazioni capitolari: dare visibi- lità agli africani e noi missionari as- sumere il ruolo dell’uomo invisibile. Ma trovai l’opposizione di chi a- vrebbe dovuto approvare ufficial- mente con coraggio e coerenza le nuove vie dell’evangelizzazione. Non potevo continuare in una si- tuazione superata e fuori della storia; il parroco condivideva la mia posi- zione: lasciammoMaralal per aprire una missione a Mombasa, sull’O- ceano Indiano. Si apriva così un nuovo capitolo di esperienza missionaria: accompa- gnare l’africano urbanizzato, cioè sradicato dalla propria terra e mon- domonoculturale e passato alla città, in una società pluriculturale. Si trattava di una zona totalmente musulmana, con cristiani prove- nienti da altre regioni ed etnie del paese, con relative differenze cultu- rali ed ecclesiali, con cattolici, prote- stanti e tanti movimenti religiosi. Il prete che prestava qualche ser- vizio religioso a piccole «colonie», ci disse che i cattolici erano pochissimi. Lo diceva a occhi chiusi. Abbiamo a- perto gli occhi e abbiamo contato più di 6 mila cristiani. Non avevamo niente. Radunam- mo i cristiani in una scuola e comin- ciammo a formare le piccole comu- nità di base. Ciò facilitava la localiz- zazione delle famiglie, raggruppate in quartieri tribali. Nel campo socia- le mi dedicavo ad aiutare i bambini poveri perché andassero a scuola. Una mamma della parrocchia di- venne la coordinatrice del movi- mento « Elimu ni maisha » (educa- zione è vita), con un comitato eletto dalle mamme per la gestione del progetto. Arrivammo ad avere 230 bambini e bambine, metà dei quali musulmani. Era chiaro che non do- vevano esserci pressioni di sorta. An- zi, si pagava una tassa extra per il maestro di corano che insegnasse ai bambini musulmani. Con la gente eravamo abbastanza affiatati. Si procedeva amisura d’uo- mo, cercando di fare una lettura at- tenta della realtà culturale, sociale, politica e religiosa per non cadere nell’errore di programmi troppo grandi o fuori posto. Quando il parroco venne trasferi- to, dovetti prendere il timone. La sua partenza lasciava un grande vuoto. Avevamo lavorato con affiatamento: i nostri stili divergevano, ma si com- pletavano; personalmente avevo bi- sogno di lui. La gente soffrì per la partenza: gli volevano bene; con lui era facile dialogare. Un caro amico, anche lui con e- sperienza del Marsabit, venne ad aiutarmi. Continuammo la costru- zione delle strutture parrocchiali. La chiesa in mattoni era bella e acco- gliente; quella di pietre vive anche migliore: era una casa-famiglia, in cui si lavorava insieme, sviluppando va- lori e qualità specifiche di ogni per- sona. La domenica era il giorno per stare assieme. La settimana era de- dicata al lavoro, alla formazione del- la comunità, agli incontri per coor- dinare la promozione umana. Ma avevo nostalgia dei samburu . Sarei ritornato volentieri, con deci- sioni rinnovate e disponibilità.Mi fu fatta, invece, un’altra proposta: an- dare in Colombia, a Cartagena, tra gli afro-americani, discendenti degli schiavi evangelizzati da san Pietro Claver. Iniziava così un terzo capito- lo di esperienzamissionaria: dopo gli africani in casa propria e urbanizzati, mi trovavo tra quelli in esilio. MISSIONI CONSOLATA 52 APRILE 2002 Mc Samburu (già acculturati) di Maralal. Padre Ramponi vi lavorò per diversi anni.
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