Missioni Consolata - Marzo 2002
MISSIONI CONSOLATA 57 MARZO 2002 «N ella città di New York vi sono circa 7 mila in- fermiere filippine e sono considerate le mi- gliori nella loro professione» mi assicura Denise Lane, che rappresenta l'associazione infermieristi- ca del prestigioso ospedale di Manhattan “New York Medical Center”. «Dopo la laurea conseguita nelle Filippine, lavorano per due o tre anni e poi sono facilmente assunte dagli ospedali americani». Denise non nasconde le condizioni difficili in cui le infermiere lavorano: svolgono due o tre turni consecutivi (compresi quelli notturni e serali); deb- bono adattarsi a vivere strette in tre o quattro in una piccola stanza assegnata loro dall'ospedale, e soprattutto debbono fare ore di straordinario per guadagnare denaro sufficiente per pagarsi le spe- se e per mantenere le loro famiglie nelle Filippine. «Però, nonostante il tantissimo lavoro, sono sem- pre pronte a collaborare con il personale e sono molto gentili verso i pazienti e i loro familiari». M arylin Zameli e Amelia Deglate sono arrivate in America circa 10 anni fa. «La maggioranza delle infermiere filippine si sen- tono aggravate da una doppia responsabilità» spie- ga Zameli. «Per prima cosa, devono pagare i debi- ti accumulati in anni di studio nelle università fi- lippine e, in secondo luogo, mantenere le loro famiglie in patria. È abbastanza comune per un'in- fermiera spedire 1.000 dollari al mese ai suoi vec- chi genitori nelle Filippine. E questo produce non poche conseguenze sulla vita della persona». «Conosco un'infermiera che ha dovuto comprar- si un'automobile per recarsi al lavoro e ha dovuto pertanto rifiutare di finanziare il matrimonio del fratello, situazione che le ha creato un complesso di colpa gravissimo» ha precisato Zameli. «E so di un'altra collega che ha dovuto posporre il suo ma- trimonio col fidanzato americano, perché si era im- pegnata a far studiare il fratello e la sorella all'u- niversità di Bacolod, dove anche lei aveva studia- to». Appena arrivate, Marylin e Amelia hanno dovu- to combattere parecchio per adattarsi al lavoro e alle altre infermiere non filippine. «Non è uno scherzo essere separate dalle perso- ne che ami - ammette Amelia -. Per noi che siamo nate e cresciute per vivere in famiglia e con le col- leghe ed amiche, cioè sempre circondate da gente che ti conosce, apprezza ed ama, l'isolamento del mondo infermieristico americano può essere de- vastante. E bisogna aggiungere che, oltre a questa emarginazione, devi vestire, agire e pensare se- condo il modo sociale e professionale dell'ambien- te dove lavori». Nelle Filippine Marylin e Amelia, come tutte le lo- ro connazionali sono state educate a rispettare le colleghe e a non intralciare il loro lavoro. «Qui in America ho provato sovente il contrario ed ho ca- pito che, quando sei discriminata, devi parlare chia- ro e farti sentire, altrimenti ti mettono sotto i pie- di - dichiara Zameli -. Il problema è che pure alcu- ne infermiere filippine, che lavorano da tanti anni in America, hanno imparato a discriminare ed è pe- noso quando questo lo fanno anche a noi». Per fortuna Marylin e Amelia hanno saputo tra- sformare tutte queste difficoltà in trampolini di lan- cio per organizzarsi meglio. Hanno capito che l'u- nione fa la forza e hanno deciso di fare sempre le cose assieme; dopo aver studiato nelle stesse uni- versità di Visajas e Mindanao, sono venute assie- me negli Stati Uniti, lavorano nelle stesse sale ope- ratorie, frequentano gli stessi ristoranti filippini e partecipano ad attività ed incontri promossi dal- l'ambasciata filippina. Nel loro appartamento a Glendale nel Queens, tra le foto di familiari ed at- testati di lauree, spiccano due grandi onorificenze ottenute l'anno scorso per essere state tra le mi- gliori infermiere dell'ospedale Calvary nel Bronx. A.Ba. E LO STIPENDIO VA A MANILA FILIPPINI A NEW YORK (2): L’INFERMIERA
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