Missioni Consolata - Febbraio 2002

MISSIONI CONSOLATA 61 FEBBRAIO 2002 G li armeni ammettono che nei loro confronti non ci sono state persecuzioni, nemmeno dopo la rivolu- zione islamica di Khomeini; le autorità non hanno mai impedito loro lo svolgimento del culto. Hanno una pre- senza politica riconosciuta, con due loro membri in par- lamento; hanno diritto a quote di studenti nelle univer- sità e a scuole proprie. Ciò che caratterizza la scuola armena non è l’inse- gnamento della religione cristiana (svolto nei locali del- la chiesa), ma un’ora settimanale di lingua armena e il fatto che non sia obbligatorio lo studio del corano. Una volta le scuole armene erano tante. Oggi gli studenti so- no sempre di meno, le scuole chiudono e l’edificio vie- ne rilevato per legge dallo stato. A Teheran resiste an- cora una decina di scuole. La prima cosa che si nota, entrando nella cattedrale armena di Teheran, è un grande ritratto di Khomeini: ufficialmente la comunità armena si attiene con scru- polo al «protocollo». Non esistono pubblicazioni che ne descrivono la vita reale, i disagi; vengono stampati giornali e bollettini che informano sulle attività e ini- ziative in atto. La stessa cautela regna nella comunità di Isfahan. Ho incontrato l’anziano direttore della biblioteca, il quale mi ha assicurato che gli armeni non hanno alcun pro- blema, che la gente sta bene e non ha intenzione di an- darsene. Poi ho saputo che due suoi figli vivono a New York. L a comunità armena di Isfahan è molto più piccola di quella di Teheran (circa 6 mila persone), ma è cul- turalmente più viva e ha una presenza pubblica più vi- sibile. Il complesso della cattedrale (che comprende an- che unmuseo, la biblioteca e il memoriale eretto nel 60° anniversario del genocidio) costituisce una notevole at- trazione turistica per la città. I visitatori sono soprat- tutto iraniani. Mi ci sono recata una domenica mattina. Vedendo parcheggiati all’ingresso un grosso pullman e molte auto, ho pensato ad un arrivo speciale di armeni o di altri cristiani per il giorno festivo. Mi sbagliavo: si trat- tava di musulmani. Questo luogo è per la comunità ar- mena il più potente «autoreclame». Tra i visitatori del- la cattedrale c’è chi si informa per sapere di più sulla storia e cultura armena, sui corsi di lingua. In città e- siste una facoltà di armenistica, che sembra essere al- quanto popolare, sebbene nessuno sia riuscito a spie- garmi quali siano le possibilità che si aprono agli stu- denti una volta laureati. I ricchi affreschi della catte- drale e gli straordinari oggetti esposti al museo susci- tano sempre interesse. Recentemente è stata anche ag- giunta una teca, che illustra i luoghi del genocidio per- petrato contro gli armeni dal regime dei Giovani Turchi. Una delle impiegate del museomi ha assicurato che non c’è iraniano che non sappia di quei tristi avvenimenti. La comunità promuove manifestazioni pubbliche in oc- casione dell’anniversario del genocidio, tra cui un cor- teo per le vie della capitale. Un paese musulmano come l’Iran ha dimostrato più sensibilità di noi verso la tragedia che ha colpito questi nostri fratelli cristiani, vuoi per la maggiore vicinanza ai luoghi del terribile massacro degli armeni nel 1915, vuoi perché, proprio in Iran, molti di loro hanno trova- to rifugio dalla persecuzione turca. L’Italia per anni si è rifiutata di riconoscere ufficial- mente il genocidio, cedendo alle pesanti pressioni del governo turco; lo ha fatto solo nell’autunno 2000. È per questo che ben pochi tra noi sono a conoscenza del ge- nocidio? Forse molti ne hanno sentito parlare, per la prima volta, solo grazie alla recente visita del papa in Armenia. G li armeni godono di una certa reputazione tra gli iraniani. Ho potuto constatarlo parlando con di- verse persone durante i miei viaggi. Non appena ap- prendevano che ero cristiana, si affrettavano a comu- nicarmi che pure in Iran vivono dei cristiani, e dei cri- stiani «molto bravi»: gli armeni. Quando ribattevo che presto non ne sarebbe rimasto più uno, i miei interlo- cutori sembravano molto meravigliati e domandavano: «Quale ragione hanno di andarsene?». La mia risposta era un po’ evasiva: «Non è facile vivere qui». Più che per timore di parlare, la laconicità era dovuta al mio per- siano stentato o all’inglese povero dell’interlocutore. Però lo stupore era sincero. La gente non sa che l’ar- meno ha uno «status» di cittadino di seconda categoria. Se l’avessi loro rivelato, probabilmente non ci avreb- bero creduto. Gli armeni hanno con gli iraniani buoni rapporti nel- l’ambito del lavoro e della vita pubblica; ma non intrat- tengono rapporti di amicizia. Oltre a un’innata diffi- denza, è determinante l’impossibilità di stringere lega- mi di sangue. Molti giovani, pur vivendo in Iran, sono mentalmente proiettati altrove. Il mondo che li circon- da non li interessa: ne parlano con un certo disprezzo. Ma c’è anche chi intende restare, per principio. C’è chi lotta per vedersi riconosciuto il diritto di essere cit- tadino alla pari di altri; c’è chi non vuole abbandonare una terra, dove gli armeni sono vissuti per tanti secoli, fondando un notevole patrimonio culturale e artistico. Il futuro sembra promettere un progressivo migliora- mento delle condizioni di vita. Tutto l’Iran chiede un or- dinamento più liberale e democratico. Alcuni cambiamenti sono in atto, altri verranno. Però i tempi per una radicale trasformazione del pae- se saranno lunghi e qualche armeno dichiara: «Sta’ a vedere che, quando arriverà finalmente la libertà, nes- suno di noi sarà più qui a salutarla!». Bi. Ba. di Teheran e Isfahan Memoriale del genocidio armeno a Isfahan (Iran). Pagina accanto: la chiesa di san Taddeo. In Iran opera anche una comunità di armeni, che tuttavia stanno lasciando il paese.

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