Missioni Consolata - Febbraio 2002

i mujaheddin . Nel suo curriculum vi è anche un anno e mezzo di car- cere. Oggi Soraja è leader dell’«Unione delle donne afgha- ne», un’organizzazione nata 10 an- ni fa, che si dichiara indipendente da tutte le ideologie e che com- prende donne di tutte le etnie. A malapena riusciamo a salire le sca- le, presidiate da schiere di donne fi- no al terzo piano, dove si trova il modesto appartamento di Soraja. Se si voleva attirare l’attenzione dei media con una manifestazione davanti alla sede delle Nazioni Uni- te, il fatto di non averla potuta fare ha destato senza dubbio un’atten- zione ancora maggiore. Soraja, in- credula e sorridente, avvolta in un velo bianco appena appoggiato sui capelli, è sopraffatta da telecamere LO SCANDALO CONTINUA di Alberto Chiara (*) L ’Afghanistan è sì un paese affamato, assetato, povero; è sì uno sta- to imbavagliato per colpa della crudele ottusità dei talebani; è sì ri- fugio di Osama bin-Laden e di tanti altri terroristi, ma è anche e so- prattutto una nazione quotidianamente dilaniata dalle mine antiuomo e anticarro, posate in 21 anni di guerra ininterrotta. (...) Già le mine. Non distinguono un soldato da una donna: colpiscono al- la cieca chiunque le calpesti. Non rispettano tregue o trattati di pace: esplodono anche 30/40 anni dopo essere state sotterrate. Sono armi vigliacche, di cui il mondo fatica a sbarazzarsi una volta per sempre. Le mine antiuomo hanno costi di produzione relativamente bassi, ma costi sociali altissimi. «Il prezzo di un singolo ordigno varia da 3 a 30 dollari», osservava anni or sono il Comitato internazionale della Croce rossa (la cifra non è variata di molto). «Per togliere una mina occorro- no diverse centinaia di dollari, mentre il costo di un arto artificiale, per chi rimane mutilato, è di 125 dollari». Un bambino cui bisogna ampu- tare la gamba dilaniata dallo scoppio di un ordigno, deve cambiare 15 protesi nel corso della vita. Nel dicembre 1997 il mondo sembrò mettere fine a un colpevole di- sinteresse. Ad Ottawa, in Canada, fu messo a punto un Trattato in- ternazionale che metteva al bando queste armi vigliacche vietando l’u- so, la produzione, l’immagazzinamento e il commercio di tutte le mi- ne antiuomo. (...) Al 10 ottobre 2001, il Trattato di Ottawa risultava firmato da 142 pae- si e ratificato (ovvero recepito nelle rispettive legislazioni nazionali) da 122 stati. Tra chi non ha firmato figurano purtroppo grandi potenze (Stati Uniti, Russia, Cina), nonché potenze regionali di rilievo, come India e Pakistan; Siria, Libano, Egitto e Israele; Iran e Iraq. Le mine, intanto, continuano a esplodere. (*) Alberto Chiara è inviato del settimanale «Famiglia Cristiana». Questo pas- so è tratto da «Italia Caritas» (novembre, 2001), il mensile della Caritas ita- liana. Chi non firma il trattato contro le mine? «Della guerra conosciamo non solo gli effetti più diretti e più terrificanti in termini di morte, distruzione e sofferenze sui teatri di battaglia, ma avvertiamo ormai chiaramente gli effetti indiretti di avvelenamento del pensiero, di indurimento dei sentimenti, di imbarbarimento degli atteggiamenti. Accanto all’impegno a favore delle vittime del terrore e delle bombe, dovremo affrontare il problema di una bonifica spirituale, culturale e perfino emotiva dalle troppe giustificazioni e teorizzazioni della violenza bellica». ( Progetto Rete, Trento, dicembre 2001 ) Prigionieri talebani in una base dell’Alleanza alle porte di Kabul. Pagina accanto: il volto espressivo di un anziano.

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