Missioni Consolata - Febbraio 2002

36 FEBBRAIO 2002 CONSOLATA MI SS IONI il temuto capo della polizia religio- sa talebana, annuncia che da lì a po- chi minuti verranno puniti, in nome di Allah, 4 uomini macchiatisi di crimini gravissimi. Calciatori, arbi- tro e guardalinee hanno già rag- giunto le linee laterali per non per- dersi lo spettacolo. L’altoparlante torna a dire qualcosa e i colpevoli, due ladri e altrettanti assassini, ven- gono spinti, ammanettati, a centro campo, dove sono attesi da una dozzina di boia incappucciati». Prosegue Abdarsak: «Il rituale era sempre lo stesso: gli assassini ve- nivano impiccati alle traverse e poi finiti a fucilate; i ladri subivano il ta- glio di una mano». Le esecuzioni non avvenivano solo allo stadio, ma anche in una piazza, alla periferia residenziale di Kabul, chiamata Charai Aiana, ma tristemente nota con il soprannome di piazza della morte. Al centro di quello slargo a luglio hanno penzolato, da una gru, quattro uomini accusati di aver mi- nato l’ Hotel Kabul , quartier gene- rale dei talebani; ma era solo un pre- testo per liberarsi di quattro sco- modi oppositori. IL DOTTOR CAIRO, L’«ANGELO ITALIANO» Kabul di notte è una città fanta- sma. Non vige un vero e proprio co- prifuoco, ma di fatto è come se ci fosse. Solo alcuni giornalisti si muo- vono (ma rapidamente) da un al- bergo all’altro. Mentre mangiamo un piatto di riso con pollo, un ra- gazzo ci raccomanda di ricordare che le croci bianche sulle case se- gnalano che sono state sminate, mentre quelle con la croce rossa non lo sono. Ci ricorda anche che nel paese rimangono circa 11 mi- lioni di mine. Poiché le stime parlano di circa 8/9 milioni di abitanti, questo si- gnifica più di una mina per afgha- no! Ecco perché, per strada, è nor- male vedere persone con una sola gamba. Incontriamo il dottor Alberto Cairo (laureato in legge, ma con- vertitosi alla fisioterapia) nel suo centro ortopedico, ospitato presso l’ospedale Wasir Abkhar Khan. «Sono appena rientrato dopo 57 giorni, non ce la facevo più a stare lontano da qui. Non sapevo cosa avrei trovato, ma vedo ottimismo e fiducia. Molti sperano in qualcosa di nuovo e di buono, specie adesso che tutto il mondo guarda all’Af- ghanistan. Tutti sono contenti del- la fine dei bombardamenti, ma tut- ti sono preoccupati per il futuro: la fine degli attacchi e il cambio di re- gime non significano, automatica- mente, pane, case, caldo, sicurezza o un governo stabile». Il dottor Cai- ro vive a Kabul da 12 anni, il suo centro ortopedico sforna protesi a getto continuo, avvalendosi a volte di materiali di recupero, come ad esempio copertoni. Nel centro ci sono una sala ed un percorso all’aperto per la riabilita- zione. Il personale dell’ospedale è tutto afghano, formatosi nel mede- simo centro, e la maggior parte di esso è composto di ex pazienti. Continua il dottor Cairo: «La paro- la chiave in Afghanistan è sopravvi- venza. Gli abitanti hanno dei mec- canismi che io non riesco a com- prendere: in qualche modo ce la fanno sempre, ma pur sempre so- pravvivenza è. So che gli afghani hanno grandi capacità lavorative, ma non mi aspettavo che potessero portare avanti da soli tutte le nostre attività, pur avendo così tanta pres- sione sulle spalle. I laboratori orto- pedici hanno fabbricato gambe, braccia, stampelle; le distribuzioni di cibo sono andate avanti. Il centro è in perfetto ordine. Ci sono persi- no i fiori. Temevo che i colleghi af- ghani mi avessero mentito, per far- mi stare tranquillo. Invece no, è tut- to a posto». Salutiamo il dottor Cairo e conti- nuiamo i nostri giri per Kabul. A SPASSO TRA LE MACERIE DELLA CAPITALE Alcune zone della città sono com- pletamente distrutte. Ci sono mi- lioni di fori di proiettile, come se un pazzo fosse entrato, casa per casa, sparando centinaia di colpi in ogni stanza. Il museo è devastato; l’università, per il momento, resta chiusa. L’ex palazzo reale, alla periferia di Ka- bul, è uno scheletro di travi e calci- nacci. Peccato, doveva essere bel- lo. La Tomba del Padre (un anoni- mo mausoleo) è stata bombardata. Lo zoo, nonostante tutto, resiste ed ospita un orso spelacchiato, qual- che scimmia ed un leone entrato nella leggenda, perché è sopravvis- suto allo scoppio di una granata lan- ciatagli da un mujaheddin per ven- dicare la morte del fratello, sbrana- to dall’animale. Quella che era l’ambasciata russa è ormai occupa- ta da circa 20 mila profughi. Incontriamo due donne, rigoro- samente con il burqa , che pare ab- biano voglia di chiacchierare. An- che loro sono sfollate e si sono ri- fugiate qui per sfuggire ai combattimenti che per anni hanno bersagliato le zone a nord della ca- pitale. Si ritengono fortunate, per- ché anche con i talebani hanno po- tuto continuare a lavorare. Da due anni lavorano come assi- stenti sanitarie ed educatrici presso il campo profughi. Si tratta di un progetto organizzato da «Save the children». Pur sembrando molto giovani, sono entrambe sposate. Una di loro però non pare soddi- sfatta, ed il fatto che ne parli con due stranieri è sorprendente. Si è sposata da 7 mesi e, dopo appena uno, il marito è partito per l’Iran in cerca di lavoro. E oggi lei è costret- ta a vivere con la famiglia di lui. Gli uomini di casa si affacciano alla fi- nestra, un po’ curiosi e un po’ mi- nacciosi; ma lei non pare scossa e continua a camminare disinvolta fra Altre immagini del Centro ortopedico diretto da Alberto Cairo: dopo le protesi, si passa alla riabilitazione (sopra).

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