Missioni Consolata - Febbraio 2002

34 FEBBRAIO 2002 CONSOLATA MI SS IONI Lungo la strada attraversiamo zo- ne desertiche e oasi coltivate (pre- valentemente a cavolfiori), che co- steggiano il fiume Kabul. Dopo cir- ca tre ore, nonostante il ramadan , la nostra guida si ferma per offrirci un tè nel piccolo ospedale gestito da af- ghani con fondi di una Ong france- se. «Qui i talebani praticamente non si sono mai visti. Solo qualche ferito in scontri nelle vicinanze» ci dice un infermiere. La strada è ormai una pista. Di tanto in tanto, si incontra qualche nomade con le sue greggi o bambi- ni, che cercano di racimolare qual- cosa tappando le buche lungo il percorso e chiedendo qualche spic- ciolo alle vetture che transitano. A ricordarci di essere in un paese in guerra da ormai trent’anni, ci so- no carcasse di carri armati sovietici, arrugginite dal tempo e depredate di tutto ciò che poteva essere utile. Eccoci a Sourubi. Ci sono una grande diga e la centrale elettrica che fornisce la corrente a Kabul. Qui incontriamo il primo posto di blocco dell’Alleanza del nord. I mi- litari non fanno alcun tipo di pro- blema, sorridono e parlottano con l’autista. Arriviamo a Kabul, dopo aver ti- rato un sospiro di sollievo, per aver superato senza problemi il canyon che ci separava dalla capitale. È evidente la presenza dei mujaheddin , soprattutto nelle zone strategiche della città. Ci stupisce il fatto che in soli 2 giorni l’Alleanza del nord abbia già occupato tutti i posti di controllo e stia organizzan- do l’amministrazione, mentre al nord del paese la guerra prosegue. Gli americani continuano a bom- bardare perché i talebani dicono di non volersi arrendere se non a una forza dell’Onu. Kabul, comunque, sembra sicu- ra. I mujaheddin ci rassicurano e ci dicono che problemi potrebbero esserci solo con alcuni gruppi di arabi e pakistani che si sono rifu- giati sulle montagne. «Di tanto in tanto ne viene catturato qualcuno, oppure scende dalle montagne per la fame», ci dice Abdullah, venti- cinquenne comandante di un pic- colo gruppo di uomini che arriva dal Panshir. Ci raccontano che nei giorni pre- cedenti ci sarebbero stati diversi lin- ciaggi, ma che ora si sono spostati soprattutto fuori città. La gente sembra cordiale e tutto sommato felice di aver recuperato un po’ del- le libertà perse nel 1994. Molti ra- gazzi che parlano un po’ di inglese si offrono come guide ai giornalisti. Per loro significa guadagnare in po- chi giorni quello che di solito raci- molano in un anno o più. LO STADIO DEGLI IMPICCATI Le macchine dei mujaheddin so- no tappezzate di manifesti del co- mandante Massud, «il leone del Panshir», ucciso il 9 settembre. In soli 3/4 giorni sono spuntati, qua e là, negozi di radio e televisioni, libri e musicassette. In un piccolo su- permercato troviamo persino alcu- ni prodotti italiani (Barilla, Nutel- la), corn-flakes , tonno, olio d’oliva, sigarette americane. «Arriva quasi tutto da Dubai (Emirati Arabi)» ci spiega il proprietario. Andiamo allo stadio. All’ingresso incontriamo il custode. Abdarsak ha 48 anni e lavora qui da parecchio tempo. Ricorda che, in 5 anni di re- gime, su quel campo sono state im- piccate non meno di 50 persone e almeno altre 500 hanno subìto il ta- glio di una mano. «Nell’intervallo allo stadio di Kabul c’era quasi sem- pre qualche “fuori programma”». Racconta di quel sabato 11 agosto 2001: «Sono le due di pomeriggio. I tagiki del Pamir, in maglia rossa e pantaloni lunghi, e gli azarà di Mai- van, in completo verde e pantaloni lunghi, stanno per affrontarsi. Non è una partita ufficiale eppure lo sta- dio è gremito, ci saranno 30 mila persone. Sono così rare le occasio- ne per divertirsi che una qualsiasi partita di calcio diventa un evento. L’arbitro dà il fischio di inizio. Si gioca. Mancano 10 minuti alla fine del primo tempo, quando dall’alto- parlante si chiede di fare silenzio e di sospendere la partita. Eccolo il “fuori programma”! La voce dura di Abdrakam Arrà, I l telegiornale del 31 dicembre ha mostrato le prime immagini della riapertura dell’ambasciata italiana di Kabul. Le telecamere si sono soffer- mate sulla cappella interna, unico luogo di culto cattolico nella città per tutto il tempo del terrore talebano. Tre intrepide suore e un sacerdote hanno vigilato su quella chiesetta, salvandola dalla distruzione e rima- nendo sotto la miracolosa protezio- ne del Santissimo sacramento con- servato nel tabernacolo. Si tratta di una delle numerose e silenziose vit- torie delle forze del bene su quelle del male, grazie alle quali il mondo sta ancora in piedi. Ora speriamo che le nuove autorità afghane non ostacoli- no i cattolici quando la situazione si sarà stabilizzata. Giacomo Roggeri Mermet su «La Stampa» del 3 gennaio 2002 La cappella di Kabul Kabul, nel Centro ortopedico di Alberto Cairo: il «regalo» indelebile delle mine. Pagina accanto: si lucidano le bombe.

RkJQdWJsaXNoZXIy NTc1MjU=